Salario minimo ed agricoltura.

Si può affermare, senza timor di smentita, parafrasando il Manifesto di Marx ed Engels del 1848, che «Uno spettro si aggira per l’Italia – lo spettro del … “Salario Minimo”»; tutti ne parlano ma pochi sono edotti e consapevoli dei riflessi e della complessità dell’argomento, molti slogan ad effetto, poca concretezza, spesso nessuna coerenza.

Nell’Unione Europea dei 27 membri, 21 sono già dotati di un livello salariale minimale per tutti; Italia, Svezia, Finlandia, Austria, Danimarca e Cipro non hanno, sin d’ora, ritenuto di adottare misure similari. Ciò è dovuto a ragioni di sistema in quanto, in tali paesi, sono ampiamente diffusi i contratti collettivi nazionali, deputati a disciplinare la materia.

Secondo Eurostat il “salario minimo” va dai 312 euro mensili della Bulgaria (pari ad € 1,87 orari) ai 2.142 euro del Lussemburgo (€ 12,38 orari).

Il 7 giugno 2022 in seno al Consiglio ed al Parlamento Europeo si è raggiunta una intesa programmatica sul progetto di direttiva sul salario minimo nella UE, ritenuto un rilevante pilastro dei diritti sociali europei, allo scopo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone con standard stipendiali adeguati ed equi.

La proposta di direttiva è, nella realtà, un mero quadro procedurale e nulla definisce né prevede se non un insieme di regole tese da un lato a promuovere salari minimi in tutta la UE e più concretamente volte a promuovere la contrattazione collettiva per la determinazione dei salari e livelli adeguati di salari, migliorando l’accesso effettivo alla tutela garantita dal salario minimo per tutti i lavoratori.

Il cammino è ancora lungo e la bozza di direttiva dovrà essere confermata dal Coreper (Comitato di rappresentati permanenti), seguirà poi un voto formale in sede di Consiglio e di Parlamento Europeo. Gli Stati membri hanno due anni per recepire la direttiva nel diritto nazionale.

In Italia giace al Senato la proposta di legge n. 2187 del 22 aprile 2021, in esame presso la Commissione Lavoro. Secondo tale proposta, il lavoratore deve ricevere una retribuzione complessiva sufficiente e proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, salario che non dovrà essere inferiore alla retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva, stabilendosi in ogni caso, per legge, che il salario da corrispondersi al dipendente non potrà essere inferiore ad € 9,00 orari lordi (art. 2, comma 1), da notare che in questi giorni dalle dichiarazioni dei politici e dei sindacalisti, si apprende che i nove euro sono poi inspiegabilmente diventati netti!

La proposta europea si qualifica per la non obbligatorietà (quando vi è la copertura dei contratti collettivi per l’80% dei lavoratori) e la temperanza (salario minimo nell’intorno del 60% del salario medio); la proposta Catalfo si risolve viceversa in un mero aumento salariale di fatto “sostitutivo” delle prerogative delle parti sociali stipulanti la contrattualistica e per molti settori economici dirompente, rispetto al costo del lavoro.

I riflessi delle varie iniziative sul settore agricolo sono da valutare attentamente. Il recente C.C.N.L. per gli operai agricoli, rinnovato il 23 maggio 2022, ha definito i nuovi minimi stipendiali di area, pari ad € 1.389,15 mensili per i lavoratori “specializzati” (e così per €8,22 orari), € 1.266,90 mensili (pari ad 7,50 orari) per i lavoratori qualificati ed € 944,62 mensili (per € 5,59 orari) per i comuni. Apparentemente le aziende agricole applicano oggi salari nazionali abbondantemente inferiori al paventato salario orario di 9 euro (netti o lordi che siano).

La proposta di legge comunque non contiene alcun elemento chiarificatore circa la definizione del salario orario “proporzionale e sufficiente”. Ad esempio, non è chiaro se nell’importo dei 9 euro sia ricompreso il terzo elemento, che – per l’operaio a tempo determinato nell’agricoltura – vale il 30,44% della retribuzione (art. 49 C.C.N.L.), così come nulla si dice sulla quota salariale afferente il TFR, pari ad 8,63% (art. 57 C.C.N.L.).

Non si tiene in alcun conto poi del fatto ineludibile che, in agricoltura, il salario è definito contrattualmente a livello provinciale da Contratti Territoriali (C.P.L.). Ad esempio, il C.P.L. operai agricoli della provincia di Bologna prevede, a regime (tenendo conto dell’aumento del recente C.C.N.L. comprendendosi il terzo elemento), un salario orario che parte da € 8,76 per i lavoratori addetti alla raccolta ed arriva ad € 13,97 orari per i dipendenti superspecializzati e senza tener conto del TFR, che in quota oraria vale € 0,58 od € 0,92 orari!; analogamente ad esempio,  con leggeri scostamenti, se si valutano i relativi C.P.L., a Siracusa ed a Grosseto. In sostanza, in tutto il Paese i salari degli operai agricoli, se presi a livello provinciale, sono coerenti con la previsione del progetto di legge italiano, qualora il salario minimo di legge sia lordo e tenendo conto del terzo elemento.

Tutto cambierebbe se si passasse dal lordo al netto, dovendosi all’uopo considerare il cuneo fiscale; il settore agricolo sconta una contribuzione CAU molto onerosa, ogni ora di lavoro costa d’ordinario all’azienda (per un OTD) il 46,5365%, di cui l’8,84 a carico del lavoratore (importi minori per Z.A.S. e zone svantaggiate), ciò genera una forbice irrisolvibile, un alto costo del lavoro, un basso salario per il dipendente.

Un’azienda della pianura padana paga circa € 13 orari per raccogliere la frutta ed il lavoratore incassa poco meno di € 8,00, il resto … manca! È dello Stato.

Giova ricordare, poi, che il tema del salario minimo è ben conosciuto nel nostro paese. Usciti dal secondo conflitto mondiale, usciti dal sistema corporativo che garantiva la applicazione a tutti i lavoratori dei salari stabiliti dai contratti collettivi, il legislatore italiano, attraverso la legge “Vigorelli” (n. 741 del 1959), attribuì al Governo la delega per emanare una serie di decreti per definire un “minimo di trattamento economico e normativo” per ogni categoria produttiva, sulla base del contenuto dei contratti collettivi esistenti al momento dell’entrata in vigore della legge delega.

Con la legge Vigorelli – di fatto – si generò negli anni’50 (del secolo scorso) la estensione “erga omnes” dei contratti collettivi vigenti, attraverso il “recepimento” legislativo di queste fonti contrattuali private.

Sul punto intervenne la Corte Costituzionale (sentenza n. 106 del 19 dicembre 1962) che abrogò il sistema normativo “creato” in via legislativa, ritenendolo in contrasto con l’art. 39 della Costituzione. In Italia, i contratti di lavoro, stante la mancata applicazione dell’art. 39 Cost., sono tutti di diritto privato; in sostanza, gli accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali, sia datoriali che dei lavoratori, non producono effetti nei confronti degli appartenenti alla intera categoria cui astrattamente si applica il contratto collettivo (valenza “erga omnes”) ma esplicano efficacia unicamente per coloro che abbiano prestato consenso (vuoi aderendo ad un sindacato vuoi recependo il contratto collettivo nel contratto individuale di lavoro).

Peraltro, gli obiettivi di “socialità” perseguiti con la istituzione del salario minimo sono già parte del nostro ordinamento.

L’art. 36 della Costituzione, infatti, già prevede una garanzia costituzionale relativamente alla retribuzione atta ad assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”, garanzia raggiunta di fatto ed indirettamente, attraverso la estensione a tutti i lavoratori dell’efficacia delle clausole retributive contenute nei C.C.N.L..

La giurisprudenza della Cassazione sull’art. 36 ha, infatti, rappresentato la modalità con cui, in Italia, sono stati introdotti, per ogni settore produttivo, minimi retributivi, utilizzando la previsione di cui all’art. 2099 del codice civile; se l’art. 39 della Costituzione riconosce al dipendente il diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità ed alla quantità del proprio lavoro e sufficiente ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, la norma codicistica prevede che il giudice determini la retribuzione del lavoratore in assenza di accordi collettivi o di accordi tra le parti. In pratica, dovendosi valutare la corrispondenza degli accordi tra le parti rispetto alla norma costituzionale, in via giurisprudenziale la magistratura ha introdotto il richiamo ai contratti collettivi, ritenendo illegittimi i trattamenti retributivi inferiori a quelli previsti nei contratti collettivi di settore, considerati, ex art. 2099 c.c., i minimi tabellari dei contratti collettivi utili a sancire l’equo compenso. Ciò ha generato in Italia, in via surrettizia, la applicazione generalizzata della parte retributiva dei contratti collettivi, anche in assenza di una legge.

La strada è accidentata ma per l’agricoltura, già compressa da costi crescenti e ricavi incerti, l’istituzione per legge di un salario minimo può essere potenzialmente esiziale, poiché molte delle mansioni agricole tipiche, anche applicando regolarmente i contratti, sono certamente inferiori ai 9 euro orari di cui si vagheggia.

Chi scrive reputa che in Italia qualunque norma di legge in materia salariale violi la Costituzione (art. 39 e art. 41) e renda obsolete le parti sindacali che si troverebbero a perdere il ruolo storico loro affidato dalla Costituzione e dalla legge 300/70. Stabilire il salario per legge esautora le parti sociali, toglie autonomia alle scelte economiche e, in definitiva, limita la libertà all’impresa.

Si raccomanda al legislatore, comunque, chiarezza: si definisca con concretezza la “base” imponibile retributiva, stabilendo se nel salario minimo orario sono da ricomprendere tutti gli istituti a maturazione differita, accessori ed il trattamento di fine rapporto; si chiarisca poi che tutti i salari debbono intendersi al lordo, onde evitare la ovvia differenziazione “soggettiva” della retribuzione, che risente quantomeno delle detrazioni e deduzioni fiscali e si chiariscano infine  i criteri della rappresentanza sindacale per non ricadere nella babele della frammentazione sindacale delle fonti, plasticamente rappresentata dal CNEL che, registra in Italia per il solo settore agricolo, 60 contratti nazionali depositati.

Non si può sottacere, infine, il correlato rischio per il sistema di Welfare agricolo: aumentare per legge il salario minimo porterà all’aumento dei Salari Medi convenzionali, dei minimali contributivi CAU, delle prestazioni assistenziali e previdenziali per lavoratori dipendenti ed autonomi, per la indennità di disoccupazione, mettendo a rischio la già deficitaria gestione agricola dell’I.N.P.S..

(M. Mazzanti)