Con recenti sentenze (n. 14257/2019 e n. 5541/2021) la Corte di Cassazione ha stabilito – in tema di retroattività della riclassificazione dei datori di lavoro ai fini contributivi, definendo con ciò un nuovo orientamento – che la variazione della classificazione dei datori di lavoro, comportante il trasferimento in altro settore economico coerente all’effettiva attività esercitata, potrà avere effetto retroattivo unicamente quando le dichiarazioni del datore di lavoro (comunicate all’INPS al momento dell’iniziale inquadramento) si siano rivelate inesatte.
Conseguentemente l’INPS ha recentemente diramato la circolare n. 113/2021, con la quale l’Istituto prende atto, recependone la portata innovativa, del citato nuovo orientamento giurisprudenziale, disponendo altresì sul pendente e numeroso contenzioso in essere relativo alla decorrenza degli effetti dei provvedimenti di variazione della classificazione ai fini previdenziali dei datori di lavoro.
Si ricorda che la questione si basa sulla interpretazione dell’art. 3, c. 8, L. n. 335/1995 secondo cui: …“I provvedimenti adottati d’ufficio dall’INPS di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali, con il conseguente trasferimento nel settore economico corrispondente alla effettiva attività svolta producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro”…
Sul punto si sono registrati, in passato, diversi orientamenti. Ad esempio sempre la Cassazione con altre sentenze (n. 13383/2008 e n. 8558/2014) aveva deciso in favore della retroattività anche nei casi di omessa comunicazione, da parte del datore di lavoro, dei cambiamenti medio tempore occorsi nell’attività aziendale, ritenendo che sia la comunicazione erronea iniziale che l’omissione successiva integrino la fattispecie relativa alle “inesatte dichiarazioni”, con conseguente e successiva “ discrasia tra l’effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali la classificazione iniziale era fondata”.
Le nuove pronunzie, viceversa, tendono ad affermare una interpretazione della norma più letterale ed aderente al testo; sia la sentenza n. 14257/2019 che la pronunzia n. 5541/2021 ritengono che la norma (art. 3, comma 8, L. n. 335/1995) stabilisca una unica eccezione al principio della “irretroattività” della classificazione e cioè il caso nel quale, “ab origine”, il datore di lavoro nella dichiarazione all’INPS iniziale dell’attività abbia comunicato e dichiarato inesattezze; secondo questo orientamento trattasi di ipotesi tassativa, e pertanto non suscettibile di interpretazioni estensive o analogiche.
Secondo la Cassazione il principio è confermato anche dalla lettura sistematica sempre inerente la classificazione delle aziende; osserva la corte di legittimità, infatti, che l’ordinamento già autonomamente punisce i comportamenti datoriali omissivi in merito ai cambiamenti intervenuti nel corso dell’attività, la vigente normativa (art. 2, c. 1, D.L. 6 luglio 1978, n. 352, conv. in L. 4 agosto 1978, n. 467) prevede certamente l’obbligo, per il datore di comunicare agli enti previdenziali la variazione dell’attività svolta, ma il possibile inadempimento non determina nessuna conseguenza in termini di decorrenza della variazione di inquadramento, applicandosi solo una sanzione pecuniaria.
Conseguentemente la circolare INPS in commento, nel recepire il nuovo orientamento, precisa che le variazioni di classificazione disposte dall’INPS dopo il 24 maggio 2019, avranno effetto retroattivo unicamente qualora vi siano state inesatte dichiarazioni del datore di lavoro rese esclusivamente nella fase iniziale dell’inquadramento.
Nel contempo l’INPS provvederà ad istruire le proprie strutture provinciali e le avvocature periferiche circa il nuovo orientamento amministrativo.
(M. Mazzanti)