Non si contano più gli strali degli imprenditori sull’attuale situazione del mercato del lavoro in Italia. Il sistema, faticosamente uscito dalla pandemia da COVID 19, si è bloccato; molte le concause tra il soffocante dirigismo, l’inscalfibile burocrazia, l’insieme normativo sempre più involuto, incoerente ed artatamente affastellato, completano e drammatizzano lo scenario sistemico la olistica disaffezione culturale al lavoro ed all’impegno, per tacere della dicotomia stellare tra la formazione scolastica ed il fabbisogno delle imprese.
La politica completa il quadro con false abolizioni della povertà, improbabili salari minimi garantiti e reali creazioni di rigidità con assurdi apparati sanzionatori, decontestualizzati dal mondo produttivo e del lavoro volti a solleticare il becero giustizialismo ed il pregiudizio pansindacale verso le imprese ed il lavoro, con una narrazione mediatica capziosa e luddista.
La società vera e pulsante, di chi produce, parla poco e paga le tasse si affanna a lanciare moniti inascoltati; secondo Unioncamere già oggi in Italia mancano 1.500.000 lavoratori, risultando scoperte le posizioni aziendali ed onerando le imprese di affannosi percorsi di ricerca (vana) di personale; 500.000 posti sono vuoti nel sistema confindustriale, con drammatiche punte nel settore meccanico e nelle imprese dei settori innovativi, 200.000 addetti mancano – secondo Confcommercio – nel settore turistico alberghiero e dei servizi; 100.000 posti sono già vacanti nel settore agricolo.
Un dato appare ai commentatori come oggettivo ed inconfutabile: il reddito di cittadinanza ha ucciso i rapporti a termine ed il part – time, costituendo il livello economico assistenziale garantito ai più senza fatica (media INPS 2021 pari ad € 609,00 mensili) una sorta di salario minimo garantito fruibile ; così non si crea il lavoro, così si distrugge il lavoro, per tacere della erosione del valore maieutico e culturale del lavoro ed in ultima analisi la compressione della dignità della persona, ridotta al rango parassitario e saprofita.
In agricoltura il quadro è ancora più preoccupante, per vizi sistemici, pregiudizi normativi e disvalore sociale del settore; si confonde la stagionalità con la precarietà, dimenticando che il sistema di welfare in agricoltura, così come i contratti di lavoro è tra i più favorevoli ai lavoratori e teso alla stabilità della occupazione e dei redditi degli iscritti agli elenchi anagrafici INPS (si veda Legge n. 457/1972, cassa integrazione CISOA e Legge n. 247/2007 disoccupazione speciale agricola, Art. 21 CCNL, in tema di garanzie occupazionali per il personale avventizio e a termine e art. 62 CCNL, relativamente alle integrazioni al reddito in caso di malattia ed infortuni).
Il reddito di cittadinanza ha indiscutibilmente tolto dal mercato del lavoro 2.160.000 italiani e 300.000 stranieri, soggetti tutti potenzialmente in grado di lavorare.
Oramai notorie la difficoltà di interi settori produttivo dal turismo alla ristorazione per finire alle campagne italiane, ormai popolate da reduci di un glorioso passato bracciantile in limine pensionistico. Le statistiche dell’’occupazione già l’anno scorso segnalavano un calo della forza lavoro agricola nel nostro paese; in particolare, gli operai agricoli, censiti dall’INPS, sono diminuiti (2021 su 2020) dello 0,7% (- 7.600 unità), così’ come i lavoratori autonomi sono scesi, nello stesso periodo, dell’1,1% (- 4.700 unità). Il 35% dei lavoratori dipendenti ha più di 50 anni e solo il 20% ha meno di 30 anni di età.
Sostanzialmente ininfluenti, nel complesso, i flussi autorizzati relativi al personale extracomunitario (per il 2021) per 69.700 lavoratori, alla luce della sempre più evidente rarefazione dei lavoratori disponibili sul territorio.
Doveroso annotare come in Italia la disoccupazione a dicembre 2021, sia pari al 9% (pur diminuita dai precedenti livelli, 9,1% a novembre 2021 e rispetto al 9,8% di un anno addietro) confermandosi tuttavia il nostro paese al top nella comunità a 27 paesi (siamo il terzo paese col tasso più alto dopo Grecia e Spagna, entrambe in calo, al 12,7% e 13%), annotandosi peraltro come il calo della disoccupazione in Europa sia assai più marcato: a dicembre 2021 la disoccupazione nell’area UE a 27 è scesa al 7% nella zona euro e al 6,4% nell’Ue nel suo complesso.
L’Italia deve chiedersi il perché, quali siano le ragioni fondative del disastro occupazionale italiano che tocca storicamente e costantemente i vertici assoluti comunitari. Le ragioni non possono essere altro che sistemiche e di quadro normativo.
In agricoltura poi sono da evidenziare alcune storture ulteriori frutto del pregiudizio sociologico e politico. Qualche esempio, ancorché politicamente scorretto, potrà contribuire alla comprensione delle ragioni del disagio imprenditoriale.
Recenti episodi, riportati dalla cronaca, inducono a ripensare alla normativa astrattamente licenziata per colpire il lavoro nero, il caporalato, l’ intermediazione illecita, lo sfruttamento dei lavoratori ed il sistema degli appalti di manodopera (art. 603 bis c.p. e Legge 29 ottobre 2016, n. 199), poiché nella attuale formulazione anche mere violazioni formali o di carattere unicamente contrattuale e lavoristico, anche del tutto episodiche e non reiterate, possono condurre l’imprenditore nel meccanismo infernale del processo penale.
Sicuramente non si determineranno, nella gran parte dei casi, le condizioni per arrivare alla condanna penale (se sganciate da un reale sfruttamento connesso allo stato di bisogno) ma forte è il rischio che sia attribuito nell’immediatezza del fatto contestato al lavoratore, ai funzionari ispettivi ed al sindacato dei lavoratori uno straordinario potere interdittivo (o peggio!) nei confronti dei datori di lavoro, che si troveranno perciò ad affrontare, in relazione agli indicatori dello sfruttamento, come normati, le conseguenze del loro agire imprenditoriale non più in sede civile ma in sede penale, unitamente a misure draconiane quali l’arresto in flagranza, la confisca, il “controllo” giudiziale dell’azienda.
Se dunque è vero che per configurare il reato è necessario che sussista lo stato di bisogno e l’approfittamento da parte del datore di lavoro, è pur vero che tale stato non è astrattamente difficile da riscontrare nei confronti di persone, come gran parte dei lavoratori agricoli, che svolgono attività di carattere stagionale e discontinuo, che sono disoccupati per buona parte dell’anno, che percepiscono redditi contenuti, e che spesso appartengono a categorie sociali considerate deboli sotto il profilo occupazionale (extracomunitari, ultra cinquantenni, donne).
In ogni caso, la necessità che sussistano il dolo e l’approfittamento dello stato di bisogno mitigano solo in parte le preoccupazioni dei datori di lavoro in merito ad una fattispecie criminosa descritta in modo generico e attraverso il rinvio ad indicatori vaghi ed eccessivamente ampi, che lasciano grandi margini di discrezionalità agli organi di vigilanza ed alla magistratura.
Tale norma, causalmente del tutto astrattamente giusta e giustificabile, per la formulazione tecnica è in realtà quindi distorsiva del mercato del lavoro e ricattatoria nei confronti delle aziende, anche le più “scrupolose”; correlativamente da rivedere e ridefinire la norma di cui all’art. 8 della Legge n. 199/2016 per la Rete del lavoro agricolo di qualità, normativa che occorrerà cambiare attraverso la revisione dei requisiti per l’iscrizione delle aziende, la articolazione territoriali, lo scopo e le funzioni, i criteri di cancellazione.
Tutto da calibrare poi l’apparato sanzionatorio “amministrativo” che si è accumulato in materia lavoristica (un esempio per tuti: la depenalizzazione del reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali (D.Lgs. 8/2016) ha stabilito per le omissioni inferiori ai 10.000 euro annui la sanzione “amministrativa” da 10.000 a 50.000 euro!
Una evidente e marchiana sproporzione tra l’offesa e la sanzione) unificando le centinaia di norme punitive, estendendo il regime della diffida ispettiva “sanante”, trasformando i corpi ispettivi in autorevoli “consulenti” delle aziende e non più poliziotti inquisitori, favorendo con ciò un salto di qualità, anche culturale nelle imprese e per gli operatori.
Semplificare poi il T.U. sulla immigrazione, sarebbe ottimale e urgente, stabilizzando il sistema delle quote, allargando e unificando il sistema dei permessi di soggiorno in specie per il lavoro stagionale, i rinnovi, le conversioni, rendendo celeri procedure che oggi solitamente arrivano a compimento quando il lavoro agricolo stagionale si è già concluso! Ripensare il sistema delle assunzioni, i meccanismi di comunicazioni “preventiva”, le modulistiche defatiganti, qualificando la tipicità delle causali stagionali e del lavoro a termine in agricoltura (mediante il rinvio alla contrattazione sindacale) liberalizzando le procedure, consentendo comunicazioni anche successive alla prestazione e la regolarizzazione delle assunzioni tardive, se dovute a motivi contingenti o cause di forza maggiore, punendo senza remore le aziende inadempienti rispetto al nuovo quadro di flessibilità e snellimento burocratico.
Cambio di passo per gli attuali inutili Centri per l’Impiego, incapaci di selezionare ed orientare il lavoro e di definire le politiche attive del lavoro, ristabilendo una rete nazionale, e non più regionale, per gestire con profitto l’incrocio tra la domanda e la offerta del lavoro, puntando su archivi e vetrine informatiche (a disposizione dei lavoratori e delle aziende e loro rappresentanze o la bilateralità); si impone infine il miglioramento del rapporto scuola lavoro con la definizione di una rete formativa e di scambio culturale tra imprese e studenti, riformando tirocini, stage ed apprendistato, valutando le esperienze positive degli ITS, attivi con grande efficacia nel sistema confindustriale, magari per implementare una rete di istituti concretamente professionalizzanti e specializzati in agricoltura e agroalimentare, valorizzando gli istituti agrari passando da una logica pubblicistica ad un contesto privatistico aziendale.
Ritornare ai “voucher”, ingiustamente aboliti dal governo Gentiloni per compiacere la CGIL, garantirebbe infine semplificazione per i casi di occupazione marginale e occasionale oggi rifluiti nel nero e nella irregolarità.
È un libro dei sogni? No, è una necessità; il nostro Paese ha l’obbligo di ridare dignità ai 3 milioni di persone costrette a pietire il reddito di cittadinanza, ai 2 milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano, e di fornire un servizio alle migliaia di aziende che producono e che non riescono più a coprire le piante organiche ed alla lunga di garantire le produzioni.
(M. Mazzanti)