Con una recente pronunzia (sentenza n. 128 del 16 luglio 2024) la Corte costituzionale ha ulteriormente depotenziato (in questo caso per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – GMO) la normativa sui licenziamenti introdotta dal governo Renzi.
La sentenza infatti ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui non prevede che si applichi, anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore (repechage).
Molto interessanti sono le motivazioni adottate dalla Corte, secondo la quale la possibilità per il datore di lavoro di estromettere il dipendente dal posto di lavoro allegando come giustificazione un fatto materiale insussistente e qualificandolo viceversa come ragione d’impresa (consentendo quindi la tutela reintegratoria nei casi più gravi di licenziamento – nullo, quello discriminatorio, quello disciplinare fondato su un fatto materiale insussistente) rappresenta un vulnus del diritto del lavoratore essendo la previsione normativa, rispetto al licenziamento, indebolita poiché facilmente aggirabile dal datore di lavoro anche se con il costo della compensazione indennitaria.
L’ipotesi relativa (il recesso del datore) secondo la Corte “offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro, sia quella di ragione d’impresa sia quella di addebito disciplinare”, risolvendosi il licenziamento fondato su fatto insussistente nella sostanza in un licenziamento pretestuoso (senza causa), che si colloca a confine con il licenziamento discriminatorio (che è viziato da un motivo, appunto, discriminatorio).
La Corte peraltro reputa ancora valide le motivazioni che si poggino sulle «valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro» (art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010) sempreché sussista il fatto materiale su cui si appoggia la ragione d’impresa allegata dal datore di lavoro per motivare il licenziamento.
La sentenza ribadisce poi che la giustificatezza del licenziamento per giustificato motivo oggettivo richiede anche che il lavoratore non sia utilmente ricollocabile in azienda in altra posizione lavorativa (obbligo di repêchage).
In buona sostanza la Corte Costituzionale ritiene che la irrilevanza dell’insussistenza del fatto materiale, prevista dalla norma sottoposta al vaglio della Corte, determina un difetto di sistematicità che depone per la irragionevolezza della la differenziazione rispetto alla ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo (di carattere disciplinare) e valuta il licenziamento come una extrema ratio qualora vi sia la possibilità di ricollocamento, ciò anche al fine della valutazione di illegittimità del licenziamento nel senso che la realizzazione della ragione d’impresa, pur se fondata su un “fatto materiale sussistente”, non avrebbe richiesto (poiché il dipendente avrebbe potuto occuparsi in altro ambito aziendale) l’espulsione del lavoratore licenziato; in questa ipotesi il fatto materiale addotto dall’azienda, sussiste ma non giustifica il licenziamento perché risulta che il lavoratore potrebbe essere utilmente ricollocato in azienda.
Criticando quindi il Jobs Act (che ha ridotto la portata della tutela reale) con dovizia di argomentazioni, la Corte reputa “che la reductio ad legitimitatem della disposizione censurata, dovendo esser limitata al rilievo dell’insussistenza del fatto materiale, deve tener fuori, dalla sua portata applicativa, la possibilità di ricollocamento del lavoratore licenziato per ragioni di impresa, non diversamente dal licenziamento disciplinare fondato su un fatto insussistente, che esclude il rilievo, a tal fine, della valutazione di proporzionalità del licenziamento alla colpa del lavoratore ….. La violazione dell’obbligo di repêchage attiva la tutela indennitaria di cui al comma 1 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015. 17.
In sostanza quando il licenziamento sia comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il licenziamento sia illegittimo sotto il profilo della verificata ricollocabilità del lavoratore, in altro posto dell’azienda, si avrà la tutela indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3 del Jobs Act;
Si rammenta che qualora sia accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
(M. Mazzanti)