Ferie, smartworking, buoni pasto e la nozione di retribuzione omnicomprensiva

Nel nostro paese, ed in specie nell’ambio del diritto del lavoro, si intende pacificamente affermato il principio della omnicomprensività della retribuzione; in pratica, secondo la vulgata corrente, la retribuzione che spetta al lavoratore dipendente deve comprendere tutti i compensi se percepiti  quale corrispettivo con continuità, obbligatorietà, determinatezza/determinabilità. Negli anni detto principio è stato oggetto di mutamenti interpretativi, soprattutto di carattere giuresprudenziale.

Fondamentali gli orientamenti assunti dalle Sezioni Unite negli anni ’80 (Cass. sez. un. Sent. 13 febbraio 1984, n. 1069) tesi ad ampliare, nell’ambito della struttura salariale, il ruolo della contrattazione collettiva, sostanzialmente superando il principio di onnicomprensività della retribuzione in precedenza totalitario; la cassazione sancì in sostanza un diverso principio secondo il quale la retribuzione è patrimonio delle parti sociali,  i sindacati sul punto hanno la libertà di definire, nell’ambito della contrattazione collettiva, la base di calcolo degli istituti retributivi, indiretti e differiti, anche quando questi sono stabiliti dalla legge.

Da ricordare peraltro che sempre la Cassazione nello stesso periodo aveva stabilito che l’unico limite alla libertà contrattuale era dato dalla sussistenza, relativamente ad un particolare elemento retributivo, di una precisa norma legislativa che ne acclarasse la omnicomprensività; in questo caso la norma è inderogabile in peius da qualsivoglia norma contrattuale collettiva (Cass. sez. unite, Sent.  4 aprile 1984 n. 2183).

Ancora recentemente la interpretazione corrente si ispirava al predetto orientamento infatti

L’incidenza di un elemento retributivo nella determinazione di altri, fatti salvi i casi disciplinati dalla legge, non dipende dalla mera frequenza dell’erogazione…. nella quantificazione della retribuzione ……il lavoro ….prestato con continuità può essere computato solo se previsto dalla disciplina collettiva “ (Cass., sez. lav. Sent. 16 maggio 2003, n. 7707); ancora “non esiste nel nostro ordinamento un principio generale ed inderogabile di omnicomprensività, individuabile soltanto nella previsione di specifiche norme di legge o di contratto collettivo” Cass. Sent. 20 novembre 2020, n. 26510.

Si confermava quindi, anche recentemente, che per definire la retribuzione normale è decisivo il tenore dell’autonomia collettiva cui spetta il compito di individuare le voci da includere nella base di calcolo; corollario necessario è che in mancanza di una previsione da parte del contratto collettivo, un determinato emolumento non può essere incluso nella base di calcolo di altri istituti non essendo sufficiente il silenzio della normativa collettiva sul punto.

Recentemente il consolidato quadro interpretativo ha subito una significativa erosione e ciò in particolare in relazione ai buoni pasto (e ticket mensa o indennità sostitutive), disarticolando prassi decennali (ed allarmando non poco le aziende per gli innegabili riflessi sui costi) in considerazione della retribuzione da considerarsi utile ai fini del pagamento delle ferie e nei casi di prestazione in modalità lavoro agile.

Ad onor del vero la questione si è imposta in relazione ad alcune pronunzie, in tema di ferie e retribuzione, della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, con la sentenza Robinson Steele del 2006, precisò che

con l’espressione contenuta nell’art. 7, nr. 1, della direttiva nr. 88 del 2003 si vuole fare riferimento al fatto che, per la durata delle ferie annuali, la retribuzione con ciò intendendosi che il lavoratore deve percepire in tale periodo di riposo la retribuzione ordinaria (conformi CGUE 20 gennaio 2009 in C.350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri)”, sostanzialmente quindi dovendosi assicurare al lavoratore “una situazione equiparabile a quella ordinaria del lavoratore in atto nei periodi di lavoro sul rilievo che una diminuzione della retribuzione potrebbe essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il diritto alle ferie, il che sarebbe in contrasto con le prescrizioni del diritto dell’Unione”.

Peraltro per i giudici di legittimità (Cass. n. 20216 del 23 giugno 2022)

“le sentenze della Corte di Giustizia dell’UE hanno…. efficacia vincolante, diretta e prevalente, sull’ordinamento nazionale” .

 

Su queste basi la recente pronunzia della Cassazione, del 27 settembre 2024 n. 25840, anche richiamando altre pronunzie simili (Cass, 30 novembre 2021 n. 37589) ha ritenuto che la retribuzione dovuta nel periodo di godimento delle ferie annuali, ai sensi dell’art. 7 della Direttiva 2003/88/ come interpretato dalla Corte di Giustizia, comprende qualsiasi importo pecuniario che si pone in rapporto di collegamento all’esecuzione delle mansioni e che sia correlato allo “status” personale e professionale del lavoratore, ciò anche nel caso di erogazione del compenso per il  mancato godimento delle ferie, con lo scopo di garantire al lavoratore condizioni economiche paragonabili a quelle di cui gode quando esercita l’attività lavorativa.

In sostanza la sentenza non escludendo dalla base di computo alcun elemento (anche se diversamente previsto dalla contrattazione collettiva, travolgendo di fatto la previsione concordata tra i sindacati datoriali e dei lavoratori) vuole eliminare qualsivoglia deterrente all’esercizio del diritto del lavoratore di fruire effettivamente del riposo annuale indispensabile per il recupero psico fisico e per la sicurezza del lavoro.

Questi principi applicati al buono pasto, ticket mensa od alle indennità sostitutive equivalenti, suscitano perplessità non indifferenti, proprio in ragione dello scopo che tali emolumenti hanno (consumare il pasto in coerenza con il lavoro e per evitare la dilatazione della giornata di lavoro con soste prolungate, in questo senso peraltro si veda la sentenza della Cassazione n. 31137/2019) e considerando che tali somme non sono rappresentativi di uno status del dipendente e nemmeno  (per l’ordinamento italiano) sono elementi fiscalmente e previdenzialmente imponibili che, viceversa aderendo all’orientamento predetto, assumerebbero veste retributiva ancorchè non in presenza della prestazione (carenza nella corrispettività) generando, oltre alla maggiorazione del costo azienda ed alla tassazione per il dipendente di somme oggi esenti,  notevoli problemi di costruzione della busta paga.

Da ultimo non pare corretto annichilire la volontà delle parti sociali distruggendo od annullando le regole pattizie che, essendo concordate sulla base di interessi e reciprocità, meglio possono cogliere le specificità settoriali e lavorative adeguando più correttamente le regole ai casi concreti, ai territori, alle professionalità.

Francamente decidere a Bruxelles il contenuto dei contratti di lavoro stipulati dagli italiani appare una forzatura poco comprensibile.

(M. Mazzanti)