Dal 23 febbraio ultimo scorso l’emergenza sanitaria ha prodotto un dedalo inestricabile di regole, un tornado normativo si è abbattuto sulle imprese: dopo due decreti legge, sette Decreti del Presidente del Consiglio, otto Decreti ministeriali, due Ordinanze ministeriali, una Ordinanza della protezione civile, decine di Ordinanze di Regioni e Comuni, svariate Conferenze Stato Regioni, Accordi sindacali, confederali e non, pronunciamenti e consigli delle più diverse autorità sanitarie ed istituti medico-scientifici, quotidiani sermoni della protezione civile, e chi più ne ha più ne metta, è arrivato in Gazzetta Ufficiale, del giorno 8 aprile, l’atteso decreto legge “liquidità”, il D.L. n. 23/2020.
Gli imprenditori hanno assistito in queste settimane, sgomenti ed impotenti, alle piroette del potere che, non senza ritardi, errori mediatici, confusioni, sovrapposizioni e contraddizioni, ha tentato di rispondere alla pandemia, chiudendo il paese e la gran parte delle attività economiche secondo il codice ATECO.
Tralasciando le enormi questioni sottese, tra l’evocazione dello stato “etico”, le inevitabili suggestioni totalitarie e la fluidificazione dei diritti costituzionali di libertà personale ed economica, molti operatori economici rilevano il mancato concerto europeo foriero di sleale concorrenza, la rottura di alcune filiere strategiche per il paese, la incongruenza, l’inefficacia sostanziale ed i ritardi delle misure prese sino ad oggi.
Tanti commentatori hanno evidenziato l’inadeguatezza del precedente decreto “Cura Italia”, quale assemblaggio di misure di mero assistenzialismo (i 600 euro che sono già finiti e che nessuno ha ancora
visto), la cassa integrazione (che è arma spuntata per la voluta lentezza del sistema autorizzativo), di spesa improduttiva a pioggia, di regalie varie e di asimmetrie ingiuste tra lavoratori, a tutto danno degli autonomi e professionisti, che già non possono accedere al welfare.
Sino ad oggi alla pandemia sanitaria si è contrapposta la pandemia delle carte e delle chiacchere. La distanza tra le declamazioni ed i risultati è apparsa plastica, evidente, senza appello.
Le risibili performance informatiche dell’INPS, il balletto inescusabile sulle mascherine ed i respiratori, le quotidiane versioni dell’autodichiarazione ministeriale, la bulimia normativa, la pervasività delle burocrazie, depongono per l’insostenibilità leggerezza di ogni livello istituzionale di fronte al fare.
Il nuovo decreto legge “liquidità” doveva di fronte alle emergenze porre rimedio alle lacune di tutte le misure intraprese, assicurare un rapido accesso al credito, destrutturare il pernicioso mondo dei burocrati, lentocratici ed impedienti, poteva definire criteri di priorità negli interventi, chiarire le competenze, assistere i settori produttivi più sofferenti. Il Decreto impegna oltre 400 miliardi di euro movimentati, che si uniscono alla precedente moratoria dei prestiti e alla apertura delle linee di credito per le imprese, risorse che potrebbero rappresentare una pietra angolare su cui ricostruire l’economia del paese.
Dalla lettura delle 37 pagine del decreto si intravedono però alcune robuste criticità tecniche e legate al fattore tempo. Se i prestiti Sace dovranno sottostare alla preventiva autorizzazione comunitaria ed alla complessa griglia di accesso, se i prestiti comunque garantiti dallo Stato, in misura inferiore al 100%, dovranno sottostare alle ordinarie procedure del sistema bancario, siamo di fronte al nulla, le aziende avranno forse il credito a serrande chiuse.
Apparentemente più celere l’accesso al credito per le piccole imprese, le arti e le professioni e cioè i prestiti fino a 25mila euro (nei limiti comunque del 25% del fatturato). Non dimentichiamo poi che le somme in gioco sono prestiti (da rendere in 6 anni) e non erogazioni a fondo perduto, somme gravate quindi da un tasso di interesse per le banche e una commissione di garanzia.
Prevista la sospensione, per aprile e maggio, dei versamenti di tasse e contributi a fronte delle istanze, provenienti da più parti, di abbassare le imposte e il cuneo fiscale. Escluse dai prestiti le aziende in sofferenza, come risultanti alle banche, e le imprese in difficoltà, come definite dai regolamenti comunitari.
Certifica l’ISTAT che l’agricoltura italiana assicura un lavoro a 415.000 aziende e 1,5 milioni di addetti. Capire l’impatto della emergenza sanitaria sul comparto agricolo ed agroalimentare è la sfida del presente, molto dipenderà dalla durata e dalla intensità del rallentamento produttivo (che è mondiale), dei prezzi internazionali, dalla tenuta del già cedente mercato interno.
Oggi soffrono fortemente le attività agrituristiche, vivaistiche e della floricoltura, ferme le aziende di manutenzione del verde e dei servizi. Non negative appaiono le prospettive per le commodities, i future sui cereali sono confortanti; la trasformazione agroindustriale fatica ad assicurare la copertura degli ordini della GDO, esaurendo gli stock; le aziende della pasta e molitorie hanno indici di sviluppo a tre cifre. Bene le prospettive della trasformazione del pomodoro, del settore vitivinicolo; carni e uova segnalati in ripresa. Non tutto è positivo, esistono criticità che possono ridurre le performance del settore primario e della trasformazione. Preoccupanti sono infatti le barriere che molti paesi hanno introdotto per l’export, come critico è l’import di materie prime e la conseguente rarefazione delle scorte dei trasformatori, il crollo drammatico del turismo e della ristorazione parzialmente compensato dai consumi familiari, la interruzione di alcune importanti filiere produttive del settore, difficile per gli agricoltori accedere alle misure assistenziali e finanziarie governative e al credito, stante la babele normativa e la asfissiante burocrazia già innanzi citata.
Si assommano poi vecchi mali; complessa è per le aziende agricole la reperibilità della manodopera stagionale; i lavoratori stranieri in questo momento preferiscono non venire a lavorare in Italia in virtù dei rischi sanitari e di possibile contagio e per il timore di essere soggetti a quarantena al loro rientro nel paese d’origine.
Le aziende agricole, che hanno continuato a lavorare anche in questi giorni di crisi, allo Stato non chiedono la luna, chiedono di ridurre il costo del lavoro, di eliminare la stupida babele amministrativa che ammorba l’impresa, di facilitare l’accesso al lavoro con strumenti flessibili e rapidi, chiedono in sostanza di poter lavorare, non chiedono e non vogliono assistenza; chiedono di liberare, e recidere se serve, i lacci ed i lacciuoli che bloccano da anni lo sviluppo delle imprese e quindi del Paese.
Gli imprenditori chiedono che si smetta di buttare soldi (di tutti) in assistenza inutile a chi non fa nulla e sta sul divano! Le imprese non stanno trovando manodopera e nulla viene disposto per lenire le difficoltà del settore agricolo, si rischia di rompere la filiera produttiva alimentare italiana e nessuna autorità sembra prendere a cuore il problema. Se a livello globale il Covid – 19 ha reso palese un insospettato deficit politico-progettuale, in Italia si è evidenziata la plastica pochezza delle elites, la mancanza di un progetto e di una visione di Paese; abbiamo una classe dirigente priva (od incapace) di un disegno strategico, di una idea di sviluppo e di società.
Le istituzioni devono riformarsi, elevando il livello della risposta alle criticità e della programmazione; l’attuale mediocrità rischia di portare l’Italia dalla recessione (in atto dal dicembre 2019) al collasso, passando dall’emergenza sanitaria, umana e sociale, alla desertificazione del lavoro e delle imprese.
Torneremo agli anni ’50. Poveri ma belli.
(M. Mazzanti)