Con una recente Ordinanza (n. 27420/2020, pubblicata il 1° dicembre 2020), la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema della compatibilità tra lo svolgimento dell’attività agricola e la qualifica di dipendente pubblico.
Di norma il pubblico impiegato è al servizio unicamente dell’amministrazione statuale (artt. 97 e 98 CosT.); vi è, in sostanza, un principio di “esclusività”.
L’art. 53 del D.Lgs. n. 165/2001 contempla in concreto le incompatibilità del pubblico dipendente e ciò sulla base anche dell’art. 60 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, secondo il quale “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze in società costituite a fine di lucro …”; in sostanza, il pubblico dipendente non può assumere incarichi connotati da abitualità e professionalità.
La norma prevede deroghe specifiche per il dipendente part –time; nello stesso senso si esprime la legge n. 662/1996 per il part – time non superiore al 50%.
Al comma 10 dell’art. 53 citato, peraltro, si prevede inoltre la possibilità per il pubblico funzionario di esercitare attività secondarie previo l’ottenimento di apposita autorizzazione da parte della amministrazione dalla quale questi dipende.
Ogni pubblica amministrazione determina i criteri da seguire in caso di autorizzazione; tali criteri sono diretti ad evitare che il pubblico funzionario:
- svolga attività vietate per legge ai lavoratori della pubblica amministrazione,
- svolga attività che impegni il dipendente pubblico eccessivamente, generando potenziale trascuratezza dei propri doveri d’ufficio;
- svolga attività che determinino un conflitto d’interesse con l’attività lavorativa, pregiudicando l’esercizio imparziale delle funzioni attribuite al dipendente pubblico.
Sulla materia si segnala l’intesa raggiunta tra i principali soggetti pubblici nel 2013, denominata “Criteri generali in materia di incarichi vietati ai pubblici dipendenti”; ancora utile la conoscenza del dettato di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 33/2013, secondo il quale l’Autorità nazionale anticorruzione vigila sul rispetto, da parte delle amministrazioni pubbliche, degli enti pubblici e degli enti di diritto privato in controllo pubblico, delle disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi, a mente dell’art. 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Del tutto intercluso il secondo lavoro per il personale delle Forze Armate (Corte dei Conti, sentenza n. 216/2014).
Il Ministero della Difesa, con circolare 26 giugno 2012, protocollo n. 629616, in ordine alla disciplina delle attività extraistituzionali, ha avuto modo di riferire quanto all’esercizio di impresa agricola di dipendente pubblico quanto appresso:
“Pertanto, alla luce di tale definizione, il dipendente pubblico che svolge attività agricola, anche con partita IVA, è autorizzabile qualora non superi i limiti indicati dalla norma citata nonché dalla Circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica sopra richiamata, restando di pertinenza dell’Ente di servizio la valutazione, caso per caso, della non interferenza tra le modalità di svolgimento dell’attività agricola e l’attività istituzionale”.
Con questa recente pronunzia, la Cassazione fornisce una interpretazione per certi versi alquanto stringente, in specie per le attività rese in forma societaria, fornendo una lettura originale dell’art. 60 “Casi di incompatibilità” del DPR 3/1957 Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato ed individuando nell’attività agricola esercitata in forma societaria una attività del tutto incompatibile con l’impiego pubblico (poiché se ne presume l’abitualità).
In sostanza, la Cassazione afferma che lo svolgimento dell’attività agricola, se esercitata con i caratteri della abitualità e professionalità – caratteri che la forma societaria fa presumere – è incompatibile con un incarico pubblico in un ente locale.
La Cassazione precisa che la materia è regolata dagli articoli 53 del Testo unico sul pubblico impiego (TUPI – d.lgs. n. 165 del 2001) e degli articoli 60-64 del Dpr 3/1957, distinguendosi tre tipologie:
- Attività assolutamente incompatibili, ovvero inibite anche se autorizzate, espressamente indicate dall’articolo 60 del Dpr 3/1957;
- Attività consentite senza autorizzazione, indicate dall’articolo 53 del TUPI;
- Attività esercitabili con autorizzazione, ovvero tutte le altre, indicate sempre dall’articolo 53 del TUPI.
Secondo la Cassazione le attività di cui al punto 1 sono assolutamente incompatibili con l’impiego pubblico, l’articolo 60 include tra queste il commercio, l’industria, la professione o impieghi alle dipendenze di privati e cariche in società costituite a fine di lucro, utilizzando una previsione ampia dal punto di vista oggettivo che, per il Supremo collegio, include «tutte le attività che presentino i caratteri della abitualità e professionalità idonee a disperdere all’esterno le energie lavorative del dipendente e ciò al fine di preservare queste ultime e tutelare il buon andamento della p.a.»; tra le attività non può che rientrare anche l’attività agricola, oggi esercitata per mezzo di strutture societarie e con gli stessi caratteri di ogni altra attività imprenditoriale.
Da ciò deriva che il divieto di cui all’art. 60 citato di esercitare “il commercio, l’industria, né alcuna professione” va interpretato “in un senso più aderente alla realtà attuale”, tenuto conto per il settore agricolo delle forme societarie esistenti.
La ratio del divieto – secondo la Corte di Cassazione, pur consapevole dei diversi orientamenti esistenti sul punto – è da ricercare nella necessità di preservare i principi di buon andamento della P.A. e di esclusività della prestazione del dipendente pubblico in virtù del principio costituzionale di esclusività della prestazione lavorativa a favore del datore di lavoro pubblico ex artt. 97 e 98 Cost., evitando ogni forma di interferenza sull’attività ordinaria del dipendente.
Sempre la Ordinanza chiarisce che ciò che è rilevante “non è la remunerazione che il dipendente ottenga da un’attività esterna ma la sussistenza di un centro di interessi alternativo all’ufficio pubblico rivestito implicante un ‘attività che, in quanto caratterizzata da intensità, continuità e professionalità, pregiudicando il rispetto del dovere di esclusività, potrebbe turbare la regolarità del servizio o attenuare l’indipendenza de lavoratore pubblico e conseguentemente il prestigio della P.A.”.
Ancora si segnala l’art. 18 della legge n. 183/2010 che prevede come “i dipendenti pubblici possono essere collocati in aspettativa, senza assegni e senza decorrenza dell’anzianità di servizio, per un periodo massimo di dodici mesi, anche per avviare attività professionali e imprenditoriali. L’aspettativa è concessa dall’amministrazione, tenuto conto delle esigenze organizzative, previo esame della documentazione prodotta dall’interessato”.
Per l’agricoltura si è espresso il Dipartimento della Funzione Pubblica con il parere 11 gennaio 2002, n. 123/11, non operando quindi appieno il divieto di cui all’art. 53 citato, pur ribadendosi la necessarietà dell’autorizzazione della amministrazione di riferimento.
Per inciso, analogamente il Dipartimento della Funzione Pubblica con note 18 marzo 1998 ha sancito che l’esercizio di impresa agricola non rientra nel divieto di cui agli articoli 60 e seguenti DPR n. 3/1957 ed articolo 1, comma 60, legge n. 662/1996, ossia non rientra espressamente nelle attività che, ai sensi delle suddette disposizioni, sono incompatibili con lo status di dipendente pubblico.
L’esclusione dell’attività agricola dalle attività incompatibili con il pubblico impiego, che costituisce dunque un fondamentale principio, è stata ammessa con due importanti precisazioni.
La prima è che deve trattarsi di attività svolta nei limiti definiti dall’art. 2135 c.c.. le attività che esulano da tale ambito, considerate civilisticamente extragricole, pongono infatti un problema di compatibilità con il pubblico impiego, poiché rientrano fra quelle considerate espressamente incompatibili dall’art. 60 DPR n. 3/1957, che fa riferimento al commercio e l’industria. La seconda precisazione attiene alle modalità concrete con cui l’attività agricola viene svolta, in quanto la stessa non deve essere prevalente – in ordine al tempo ad essa dedicato – rispetto all’attività lavorativa nella pubblica amministrazione.
L’art. 1 del D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99 definisce l’imprenditore agricolo professionale come colui il quale “ … dedichi alle attività agricole di cui all’art. 2135 c.c. direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.
In buona sintesi, secondo la Cassazione, non si può essere nel contempo dipendenti pubblici ed imprenditori agricoli: resterebbero salve, tuttavia, specifiche deroghe come ad esempio quella accordata ai dipendenti in part – time c.d. ridotto (entro il 50%).
(M. Mazzanti)