Agenzia delle Entrate sul trattamento fiscale del Welfare aziendale per le lavoratrici madri.

Interessante chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate in relazione a somme riconosciute dai datori di lavoro alle lavoratrici madri, nell’ambito del welfare.

Il chiarimento è stato reso pubblico a seguito della sollecitazione proveniente da un datore di lavoro il quale, in qualità di sostituto di imposta, era interessato a  riconoscere  a  tutte  le  lavoratrici  madri dipendenti della società,  al  termine  del  periodo  di astensione obbligatoria per maternità, una somma equivalente alla differenza fra l’indennità di congedo di maternità o di congedo parentale a carico dell’INPS,  e il  100%  della retribuzione mensile lorda.

La ditta istante avrebbe corrisposto tale importo (per  i  tre  mesi  successivi  al  periodo  di astensione  obbligatoria)  a ciascuna lavoratrice  non come  retribuzione monetaria ma in  forma di  ”welfare aziendale” ovviamente per contenere il costo azienda  reputando non imponibili le somme corrisposte.

Nel quesito posto in sostanza la ditta datrice di lavoro chiedeva chiarimenti circa il trattamento fiscale (nell’ambito di un piano di welfare aziendale)  ritenendo di poter applicare la regola fiscale secondo i presupposti di  non imponibilità ex art. 51 TUIR (secondo e terzo comma).

Si rammenta che l’articolo 51, comma 1, DPR  22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), sancisce  che «Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro» affermando il  ”principio di onnicomprensività”  del  reddito  di  lavoro  dipendente secondo cui tutte  le  somme e i valori che il dipendente percepisce, a qualunque titolo, in relazione al rapporto di lavoro, concorrono  alla determinazione del reddito di lavoro dipendente.  Sfuggono a questa rigorosa norma le erogazioni indicate nello stesso articolo che prevede specifiche deroghe, elencando le opere, i servizi, le prestazioni e i rimborsi spesa che non concorrono a formare la base imponibile o vi concorrono solo in parte,  sempreché l’erogazione in natura non si traduca in un aggiramento degli ordinari criteri di determinazione del reddito di lavoro dipendente in violazione dei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione.

Secondo l’Agenzia delle Entrate, quindi,

“ la non concorrenza al reddito di lavoro dipendente deve essere  coordinata  col  principio  di  onnicomprensività  che,  riconducendo  nell’alveo  di  tale  categoria  reddituale tutto ciò che il  dipendente  percepisce in  relazione al  rapporto  di  lavoro, riconosce l’applicazione residuale delle predette deroghe, in ragione anche della  circostanza che i benefit ivi previsti non sempre assumono una connotazione strettamente  reddituale”. La risposta ad interpello, da parte dell’Agenzia delle Entrate, prosegue precisando poi che “qualora tali benefit rispondano a  finalità  retributive  (ad esempio,  per  incentivare la performance del lavoratore o di ben individuati gruppi di lavoratori), il  regime di totale o parziale esenzione non può trovare applicazione”.

Sul punto si veda la circolare 15 giugno 2016, n. 28/E  secondo cui il  welfare aziendale  consiste nelle «prestazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente in natura o sotto forma di rimborso spese aventi finalità che è possibile definire, sinteticamente, di rilevanza sociale, escluse dal reddito di lavoro dipendente».

L’agenzia rammenta sul punto anche la risoluzione 25 settembre 2020, n. 55/E, che ribadisce come “  i  benefit  siano  messi  a  disposizione  della  generalità  dei  dipendenti  o  di  categorie  di  dipendenti.  Al  riguardo,  l’Amministrazione  Finanziaria  ha  più  volte  precisato che il legislatore, a prescindere dall’utilizzo dell’espressione ”alla generalità  dei dipendenti” ovvero a ”categorie di dipendenti”, non riconosce l’applicazione delle disposizioni tassativamente elencate nel comma 2 ogni qual volta le somme o servizi  ivi indicati siano rivolti ad personam, ovvero costituiscano dei vantaggi solo per alcuni  e ben individuati lavoratori (vedasi circolari del Ministero delle Finanze 23 dicembre  1997, n. 326 e 16 luglio 1998, n. 188; nonché circolari Agenzia delle Entrate 16 giugno  2016, n. 28/E e 29 marzo 2028 n. 5/E)”.

Venendo alla risposta specifica la posizione dell’Agenzia è molto chiara  “Eventuali erogazioni in forma di welfare a lavoratrici madri, durante il periodo di maternità facoltativa o congedo parentale, per un valore corrispondente alla differenza tra il 100% della retribuzione lorda e l’indennità di maternità o congedo parentale costituiscono reddito di lavoro dipendente e non godono delle esenzioni fiscale previste dal comma 2 e 3 dell’articolo 51 del TUIR. “ Pertanto a fronte dell’’intenzione aziendale di erogare misure di welfare in sostituzione di elementi retributivi l’Agenzia delle Entrate ha  confermato  il “principio di infungibilità” tra retribuzione e benefit o misure di welfare, poiché tale sostituzione si tradurrebbe in un aggiramento dei criteri di formazione del reddito di lavoro dipendente e del principio di onnicomprensività del reddito sottolineando  che le disposizioni di esenzione dal reddito «non sono estensibili a fattispecie diverse da quelle previste normativamente, tra le quali non è compresa l’ipotesi di applicazione in sostituzione di retribuzioni, altrimenti imponibili, in base ad una scelta dei soggetti interessati».  La normativa al riguardo prevede una unica eccezione e cioè  la possibilità di convertire il premio di risultato in prestazioni di welfare; in conclusione «qualora tali benefit rispondano a finalità retributive (ad esempio, per incentivare la performance del lavoratore o di ben individuati gruppi di lavoratori)», compresa quindi la sostituzione di quote della retribuzione con misure di welfare o benefit, «il regime di totale o parziale esenzione non può trovare applicazione».  La risposta della Agenzia appare chiara da quanto dedotto, in via sistematica, anche se non appare condivisibile la argomentazione relativa alla concezione dello status di maternità ritenuto dall’Agenzia inidoneo ad individuare una ”categoria di dipendenti” destinataria di misure di welfare al fine dell’esenzione dal reddito ai sensi del comma 2 dell’articolo 51 del TUIR. L’interpello pecca, sul punto, di poca chiarezza e di generalizzazione, negando (forse per un sottinteso pericolo di disparità di genere) la caratteristica – alle donne in maternità – di gruppo omogeneo di  lavoratori,   soprattutto in un contesto normativo che tende a favorire la maternità in ragione dell’evidente crisi demografica che attraversa il paese.  Per l’Agenzia delle Entrate parrebbe non «possibile individuare una ”categoria di dipendenti” sulla base di una distinzione non legata alla prestazione lavorativa ma a caratteristiche o condizioni personali o familiari del dipendente», risultando tale assunto poco convincente  e anche in palese contrasto  con precedenti posizioni espresse dall’Agenzia ( interpello n. 273 del 2019) che viceversa  riconosce come categoria omogenea un gruppo di lavoratori a «maggior rischio di non impiegabilità, nonché in situazione di maggior fragilità sociale», costruito su «valutazione….. legata a diversi fattori, soggettivi e oggettivi», e circolare n.5/E del 2018 che definiva  come “categoria di dipendenti” l’insieme di lavoratori che, avendo convertito, in tutto o in parte, il premio di risultato in welfare, ricevono una “quantità” di welfare aggiuntivo rispetto al valore del premio convertito, elemento questo non certamente astrattamente riconducibile alla prestazione lavorativa.

(M. Mazzanti)