Con una recente sentenza (n. 118/2025, decisione del 23 giugno 2025, depositata il 21 luglio 2025 e pubblicata in G. U. 23 luglio 2025 n. 30) la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di un altro pezzo del Jobs Act renziano (del quale oramai restano macerie poiché scientemente e progressivamente demolito, in via giudiziale, sin dall’entrata in vigore, consentendo ai giudici di riappropriarsi di tutti i poteri discrezionali prima alquanto affievoliti) ed in particolare dell’art. 9, c. 1°, del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), sulla base della questione posta dal Tribunale di Livorno, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 2 dicembre 2024.
Il Tribunale territoriale ha infatti sollevato alcune questioni di legittimità costituzionale nella parte in cui il Jobs Act – tutele crescenti (entrato in vigore il 7 marzo 2015) definisce i criteri di determinazione delle indennità risarcitorie nel caso di licenziamenti illegittimi, adottati da datori di lavoro piccoli imprenditori (sostanzialmente aziende sotto i 15 dipendenti e sotto i 5 per le aziende agricole); secondo il Tribunale la norma – quando prevede, per i piccoli imprenditori nel caso di licenziamenti illegittimi, sia l’ammontare dimezzato delle indennità risarcitorie che comunque non si possa superare il limite massimo di sei mensilità – è illegittima costituzionalmente in quanto, in violazione dell’art. 3, commi primo e secondo, Cost., si determina un’ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti di datori di lavoro con più di quindici (cinque se agricoli) occupati – i quali possono godere sia della tutela reintegratoria reale che di quella indennitaria, ovvero della sola tutela risarcitoria fino a trentasei mensilità – e lavoratori dipendenti di datori di lavoro “sottosoglia” che, invece, oltre a non avere la tutela reale, possono aspirare ad una tutela indennitaria da tre a sei mensilità senza consentire quindi al giudicante di effettuare una personalizzazione del risarcimento in relazione alle circostanze del caso di specie, né a garantire l’adeguatezza e la congruità oltre che il ruolo deterrente.
Per inciso secondo il Tribunale il criterio delle dimensioni occupazionali aziendali non appare più adeguato poiché dipende da un elemento esterno al rapporto di lavoro e comunque è inidoneo a rivelare la forza economica del datore di lavoro. Il Jobs Act (art. 9, comma 1, del decreto legislativo citato) secondo il Tribunale di Livorno violerebbe poi l’art. 41, secondo comma, Cost. (poiché di danno alla libertà e alla dignità umana anche nella piccola impresa e non solo in quella di grandi dimensioni) e contrasterebbe ancora con l’art. 4, primo comma, Cost., con l’art. 35, primo comma, Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 24 della Carta Sociale Europea – CSE .
In sostanza, sia pure sotto profili giuridici diversi, la legge impugnata appare al Tribunale labronico foriera di una irragionevole limitazione della tutela indennitaria – prevista per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro “sottosoglia” – lesiva del diritto del lavoratore a un indennizzo adeguato a difenderne dignità e libertà; conseguentemente andrebbe dichiarata la illegittimità costituzionale sia della regola che prevede il dimezzamento delle indennità sia del limite massimo delle sei mensilità.
La Corte Costituzionale argomenta approfonditamente in merito, riportandoci alle considerazioni critiche già in passato espresse sulla normativa dedotta e reputa effettivamente sussistente il vulnus lamentato dal Tribunale di Livorno, ancorché non sotto il profilo evocato dal Tribunale (e cioè rispetto al dimezzamento degli importi delle indennità previste dagli artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 6, comma 1, del D.Lgs. n. 23/2015) poiché in effetti, secondo la Corte Costituzionale, gli importi sono modulabili all’interno di una forbice sufficientemente ampia e flessibile – compresa fra un minimo e un massimo, tra i quali c’è un ampio divario – e nulla impedisce al giudice di tener conto della specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, tenendo anche conto delle dimensioni dell’attività economica del datore di lavoro «nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco» – come affermato nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 150 del 2020 – per contemperare tutela del lavoratore contro licenziamenti ingiustificati ed esigenza di non gravare di costi eccessivi i piccoli datori di lavoro.
Secondo la Corte invece la norma impugnata confligge con i principi costituzionali in quanto la tutela monetaria risarcitoria subisce l’imposizione di un tetto, stabilito in sei mensilità ed è un limite insuperabile anche in presenza di licenziamenti viziati dalle più gravi forme di illegittimità, limite che quindi comprime eccessivamente l’ammontare dell’indennità.
Secondo i Giudici della Consulta quindi il “contenimento delle conseguenze indennitarie a carico del datore di lavoro ….delinea un’indennità stretta in un divario così esiguo (ad esempio, da tre a sei mensilità nel caso dei licenziamenti illegittimi di cui all’art. 3, comma 1, del citato decreto legislativo) da connotarla al pari di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata.”, liquidazione monetaria già considerata dalla Corte Costituzionale inidonea a rispecchiare la specificità del caso concreto e quindi a costituire un ristoro del pregiudizio sofferto dal lavoratore, adeguato a garantirne la dignità, nel rispetto del principio di eguaglianza. “Tale ristoro può essere delimitato, ma non sacrificato neppure in nome dell’esigenza di prevedibilità e di contenimento dei costi, al cospetto di un licenziamento illegittimo che l’ordinamento, anche nel peculiare contesto delle piccole realtà organizzative, qualifica comunque come illecito” (sentenza n. 150 del 2020).
Conseguentemente la sentenza in esame dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità»”.
La Corte peraltro, come oramai accade sempre più spesso, formula l’auspicio che il legislatore intervenga sul profilo oggetto della pronuncia e modifichi la normativa proprio avuto riguardo al criterio del numero dei dipendenti del datore, che non può costituire l’esclusivo indice rivelatore della forza economica del datore di lavoro e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi, dovendosi considerare, a parere della Corte, anche altri fattori quali il fatturato o il totale di bilancio.
Resta comunque un evidente paradosso, oggi la disciplina delle “tutele crescenti” per i dipendenti delle piccole imprese, assunti dopo il 7 marzo 2015 e oggetto di un licenziamento illegittimo – che in origine era più sfavorevole di quella prevista dalla previgente normativa – appare di gran lunga migliorativa, dovendosi oggi considerare una forbice tra 3 e 18 mensilità (rammentiamo sul punto infatti che la norma risarcitoria per i dipendenti occupati in aziende dimensionalmente superiori ai limiti indicati in apertura, prevede una forbice tra 6 e 36 mensilità).
I dipendenti licenziati oggi invece da piccole imprese, ma assunti antecedentemente al 7 marzo 2015, si vedranno liquidare in caso di illegittima risoluzione del rapporto, una somma risarcitoria da 2,5 fino a 6 mensilità sempre tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, valutando le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del dipendente licenziato, tenendo in conto anche il comportamento e le condizioni delle parti; l’indennizzo (art. 8 Legge n. 604/1966) potrà peraltro essere innalzato nella misura massima fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il dipendente con anzianità superiore ai venti anni (in aziende più dimensionate).
(M. Mazzanti)